Elogio dell’insensatezza

Ho attraversato periodi veramente neri nella mia esistenza. Durante alcuni di essi ho rasentato stati depressivi e lottato duramente per non cedere a pulsioni autodistruttive che, come sirene, mi ammaliavano con il loro canto suadente: promettevano la pace definitiva e invogliavano a prendere rifugio nella morte, nell’oblio della coscienza, così che il sonno della consapevolezza sciogliesse una volta per tutte quel malessere insopportabile.

C’era come un tormento, palpabile ma indefinito, sommesso ma sempre presente, che non mi lasciava tregua e accompagnava in sottofondo ogni mio istante, anche quelli all’apparenza più spensierati e leggeri.

Non importa ciò che fate. Il nulla arriverà e vi inghiottirà. Potete far finta che non sia così, potete distrarvi illudendovi di vincere la Grande Signora. Ma sono, appunto, favole. Ella arriverà e vi porterà via, e porterà con sé tutto ciò che avrete costruito. Siamo animali ciechi e muti che strisciano per qualche istante su questa terra cercando una parvenza di benessere, e impegnandosi disperatamente per distrarsi e non pensare alla loro inevitabile fine.
Ridete di fronte all’ineluttabilità della morte come giullari e riempite la vostra disperazione con gli affetti, se questo può in qualche modo illudervi meglio nei vostri sogni di eternità. Ma questo non cambierà le cose.
Nasciamo soli e moriamo soli. E nel mezzo, facciamo pateticamente finta di non esserlo. Ma le sceneggiate non mi interessano più. Tanto vale scivolare come l’acqua, e percorrere la via di minore sforzo possibile, per tendere all’anelata meta finale che rende tutte le cose uguali e ugualmente vane.

Se ripenso a quelle sensazioni mi rendo conto che, a prescindere da quali fossero i fattori scatenanti o le cause contingenti, c’era un elemento ricorrente: la mancanza di senso. Il senso della sofferenza, il senso del male, il senso della meschinità dell’essere umano, il senso dell’esistenza nella sua accezione più ampia. Di fronte all’assenza di evidenze di significato, nella mancanza di appigli filosofici a cui ancorarsi, si fanno dunque i conti con l’unica certezza veramente indiscutibile e incontestabile: l’ineluttabilità della morte e la caducità di tutte le cose.

Ma se siamo ciechi davanti al mistero della vita e, se l’unico punto fermo è essere inghiottiti dalla morte, allora tutto viene visto in funzione unicamente della propria fine, per cui questa cecità non può che renderci disperati e incapaci di trarre il benché minimo appagamento da situazioni piacevoli: qualsiasi cosa, persona, attività o esperienza viene percepita come futile, vana, sostanzialmente inutile, in una progressiva discesa nell’oscurità, fino a scivolare nell’apatia più irremovibile e nel cinismo più nero.

Identità e senso: una disperata ricerca

Qualsiasi complesso psicologico si fonda, in effetti, su una questione filosofica ed esistenziale che si sviluppa sui due binari paralleli dell’identità e del senso:

Chi sono io?
Qual è lo scopo della mia esistenza?
Se esisto, se mi trovo qui, dovrà pur esserci una ragione.
La mia esistenza dovrà pur servire a qualcosa.

Nelle prossime sezioni, in buona parte autobiografiche, cercheremo di sprofondare in queste domande e di esplorare, uno per uno, tutti i tentativi che si fanno per trovare risposte… tentativi che puntualmente falliscono, andando ad alimentare ogni volta di più quel vortice di angoscia e tormento.

«E se il mio senso fosse Dio?»

La risposta della storia a questi interrogativi sono state le religioni, nate con la duplice finalità di fornire un conforto all’idea della morte e, al contempo, un significato che rendesse sopportabile la vita umana, così breve e costellata di sofferenze. L’istituzione spirituale pone questo significato nel mondo ultraterreno, in ciò che c’è al di là; e la certezza di questa destinazione, a prescindere che sia reale o inventata, genera conforto e sicurezza in quanto porta a interpretare la vita in una prospettiva razionalmente ed emotivamente sensata (pur nonostante tutte le contraddizioni teologiche del caso).

Le varie forme di neospiritualità, in questo senso, non rappresentano altro che una riedizione in veste più moderna e affascinante delle stesse vecchie narrazioni religiose: il focus non è più l’aldilà, ma piuttosto nell’idea di una fantomatica illuminazione (sovente arricchita da un lessico scientificheggiante” – un esempio su tutti: il ridicolo abuso ad cazzum dell’aggettivo “quantistico”), o riallineamento dei chakra, o apertura del cuore… insomma, il nostro senso è sempre e comunque rimandato a un imprecisato e ipotetico futuro.

Anche se decidiamo di compiere un atto di fede credendo con la totalità di noi stessi a questa “destinazione spirituale e suprema che dà senso a tutte le cose”, il nostro appagamento avrà un tempo limitato. È solo questione di tempo prima che questo effimero tampone smetta di fare effetto: nel giro di qualche anno ci si rende conto che le tragedie continuano ad avvenire prendendoci in contropiede, e che in definitiva tutte le pompose spiegazioni propinate dalle dottrine spirituali (per quanto ben confezionate) hanno ben poca consistenza.

E noi, nel frattempo, rimaniamo gli stessi piccoli viandanti confusi di sempre… ma con più amaro in bocca rispetto a prima.

«E se il mio senso fossi tu?»

Delusi dalle astratte risposte religiose ai grandi interrogativi esistenziali, per sfuggire alla schiacciante insensatezza prendiamo quindi rifugio nella sicurezza degli affetti: il senso, inizialmente riposto nelle alte vette divine, viene ora traslato sulla ben più controllabile e rassicurante presenza delle persone amate, che possiamo toccare, stringere, abbracciare, e che quindi associamo a concetti di affidabilità, certezza, presenza.

Quando nulla al mondo sembra darci appagamento e noi proiettiamo il senso del nostro esistere su un’altra persona, accade una cosa strana: questa persona viene investita di un potere smisurato su di noi, si trasforma in un vero e proprio horcrux al cui interno, proprio come Voldemort, riponiamo un pezzo della nostra anima scissa.

Tutto sembrerebbe funzionare all’inizio, se non fosse per l’inevitabile dipendenza affettiva che si viene a instaurare (manifesta come insicurezza, subordinazione, possessività, gelosia, ecc.) e che si rivela in tutta la sua fragilità quando le relazioni finiscono: che si tratti di separazioni o di lutti, in questi casi non perdiamo solo una persona amata, ma simbolicamente veniamo privati della personificazione del nostro senso di vita… una perdita inaccettabile che ci affossa in una disperazione da cui è davvero difficile uscire.

Del resto, qualsiasi legame simbiotico, basato sul fornirsi a vicenda una ragion d’essere, prima o poi esplode. E in quel momento, quando non abbiamo più appigli esterni a cui aggrapparci nella nostra affannosa ricerca di un senso, dove indirizzeremo il nostro sguardo?

«E se il mio senso fossi io?»

Privati di ogni appiglio metafisico universale e scottati dalla volatilità degli affetti, non ci rimane che rivolgerci al nostro interno. E solo e unicamente dall’interno può provenire questa domanda: infatti, quando viene detto «il tuo senso sei tu» a chi è ancora alla ricerca del proprio io, una simile domanda suonerà retorica e vuota. Se io non sono in contatto con una missione, una chiamata, una vocazione, che cosa diavolo significa che “il senso sono io”? Se l’io non ha una sua ragion d’essere, questo povero io non può essere il proprio stesso senso.

Il problema non riguarda i massimi sistemi: il filtro è sempre soggettivo. Il dramma non è il non trovare un senso all’esistenza, ma piuttosto il non trovare un senso alla propria esistenza. È la percezione del mio microcosmo a essere in crisi, non quella dell’immenso e pressoché inconoscibile macrocosmo, il quale rimane sostanzialmente indifferente al nostro destino.

E solo quando tutti gli appigli (finanche perfino la roccaforte dell’io) sono crollati miseramente, solo in quel momento noi, spalle al muro, ci apriamo alla possibilità di concepire ciò che mai e poi mai avremmo voluto ammettere.

E se il senso non ci fosse proprio?

Sopravvissuti fino a questo punto, se ci collochiamo su un piano di onestà intellettuale, non potremo fare a meno di porci la più temuta delle domande: «E se non ci fosse alcun senso all’esistenza?»

Il senso dell’esistenza umana è infatti un mistero impenetrabile: non sapremo mai se ce n’è effettivamente uno, né tantomeno quale esso potrebbe essere. Dobbiamo mettere in conto che qualsiasi teoria su un “disegno intelligente” potrebbe essere irreale, che qualsiasi “viaggio astrale” potrebbe essere nient’altro che selvaggia immaginazione, che qualsiasi “dio creatore” potrebbe non essere altro che una vuota allegoria dell’impalpabile archetipo paterno. Una simile prospettiva terrorizza – comprensibilmente – la maggior parte delle persone. Siamo pronti a rinunciare a tutto questo?

Immaginiamo per un attimo di vivere in un cosmo governato dall’entropia, lasciato a sé stesso, in cui la coscienza esiste unicamente nel breve lasso di tempo compreso tra la sua nascita e la sua morte, in cui non c’è alcun progetto universale o direzione intenzionale, in cui non si ha scopo né funzione alcuna se non quella di essere vivi… un cosmo in cui non abbiamo senso e ognuno di noi è sostanzialmente inutile. Inizialmente questa prospettiva ci può apparire terrificante. Eppure…

Eppure, c’è una certa leggerezza intrinseca nell’essere inutili.

Accettare la possibilità che siamo frammenti di coscienza gettati in un mondo senza senso, pulviscolo stellare raggrumato così, a caso, senza un perché, ci libera dall’ostinata prigionia della ricerca di un significato, altare su cui sacrifichiamo quotidianamente la pace.

Vivere gli eventi piacevoli e spiacevoli per quello che sono, senza ammantarli di significati eterei e altisonanti, di dietrologie, di orpelli interpretativi. Smettere di esistere in funzione di chissà quali mete spirituali. Mantenere un buon grado di radicamento nella materia. Sono tutte ottime pratiche: la presenza o l’assenza di un senso ultimo, in fin dei conti, non cambia quasi nulla nel nostro vivere quotidiano. Dobbiamo comunque alzarci con la sveglia, lavorare, guidare, fare commissioni, pagare le bollette, cucinare. Quello della mancanza di senso è a tutti gli effetti un problema puramente astratto che si celebra solo nella psiche degli individui. La materia non ne è toccata.

Ciò non significa che tutto vada ridotto nell’ottica di un bieco materialismo. Possiamo indagare e fantasticare su ciò che è impalpabile e impercettibile ai sensi, certamente, ma ricordando in ogni istante della nostra vita che non ci sono certezze assolute e che qualsiasi convinzione a riguardo può essere sbagliata, condizionata magari da umori del momento o da altre necessità interne. Rimane il fatto che accade ciò che accade a prescindere da qualsiasi interpretazione si voglia o non si voglia dare agli eventi.

Al termine della nostra vita, quando ci guarderemo indietro e faremo il bilancio di quanto abbiamo realizzato, degli obiettivi che abbiamo raggiunto e mancato, di ciò che abbiamo dato e ricevuto, appreso e insegnato, di tutte le nostre dinamiche umane, di tutto ciò che di “buono” e di “cattivo” abbiamo lasciato al mondo, allora forse capiremo che questo fantomatico senso, se fosse esistito o meno, non avrebbe poi cambiato chissà cosa nel nostro vivere.

Forse un senso individuale esiste e può essere intuito attraverso quei fugaci “squarci” nella coscienza che di tanto in tanto infrangono i nostri sensi ottenebrati. O magari no: forse siamo davvero inutili, e la nostra breve esistenza non ha alcun significato se non l’esistere stesso.

Ma vale la pena fermarsi un attimo e chiedersi: è davvero così importante?

Sempre vostro,
Felix

Storia del folle che cercava Dio e di colui che lo accompagnò

Il primo romanzo di Felix Agrex è disponibile.

Un bizzarro ed eccentrico viandante, senza memorie e senza origini, si sveglia lungo il ciglio di una strada. Non sa nulla di sé, fatta eccezione per un unico quesito che pare essere un suo chiodo fisso: scoprire se Dio esiste oppure no. Si mette dunque in marcia, ma sa di non poter affrontare una simile impresa da solo; e così, insieme a un improbabile e scettico compagno, ha origine un'impervia avventura che vedrà i due uomini, attraverso numerose peripezie, andare alla ricerca di quell'inafferrabile risposta e confrontarsi con la vita nelle sue più variegate sfaccettature. In questa favola per adulti, in questo mito moderno, personaggi senza nome si muovono in un mondo fuori dal tempo, costellato da misteri insondabili, in un viaggio dalle tonalità sempre più oniriche che culminerà in una sconcertante rivelazione finale. Un percorso che si snoda gradualmente, poco a poco, accompagnando i protagonisti – e, attraverso il loro lungo peregrinare, anche il lettore – un passo dopo l'altro, verso il centro di quel grande e impenetrabile mistero che è la vita stessa.

“Storia del folle che cercava Dio e di colui che lo accompagnò” Acquistalo a questo link

Articoli correlati

Inizia a scrivere il termine ricerca qua sopra e premi invio per iniziare la ricerca. Premi ESC per annullare.

Torna in alto